Quel silenzio parla ancora

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


Il 20 marzo 1994 dei colpi di pistola mettono fine alla ricerca di chiarezza di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, inviati del Tg3 in Somalia. Dopo quell’anno, il 2006 è stato il più fatale per i professionisti dei media: 82 giornalisti e 32 collaboratori hanno perso la vita nell’esercizio del loro lavoro. 141 sono a tutt’oggi imprigionate (dati Reporters sans frontières, 20.3.07).

di Maria Brambilla e Fabio Arduini

 La Somalia nel 1994 è un Paese abbandonato. Un Paese lasciato nelle mani della criminalità internazionale con la connivenza delle autorità, una terra da cui tutti distolgono gli occhi per non vedere il traffico di armi e rifiuti tossici che lo ha investito. La missione internazionale “Restore Hope”, dopo quindici mesi di presenza accompagnata da scarsi successi, abbandona il Paese in mano ai signori della guerra locali e il conflitto ben si presta al gioco degli interessi di pochi, che si avvantaggiano dell’assenza di norme come in un “duty free”. Il popolo somalo, già provato dalla siccità, è calpestato, come l’erba sotto i piedi degli elefanti, dalla guerra tra le bande rivali di Ali Mahdi Mohamed e di Mohamed Farah Aidid.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono in Somalia, inviati dal Tg3 al seguito del contingente italiano che si appresta a rientrare in patria. Il 20 marzo 1994, conclusa un’intervista al Sultano di Bosaso (la principale città a nord-est del Paese – n.d.r.), stanno tornando a Mogadiscio, quando l’automobile su cui viaggiano con l’autista e una guardia del corpo viene assaltata da un commando di sette persone. Ilaria e Miran perdono la vita con un colpo di pistola nel capo.

Nonostante le perizie parlino chiaramente di esecuzione, la commissione parlamentare d’inchiesta istituita all’inizio del 2004 in due anni di indagini sfodera ipotesi lontane dal cuore degli avvenimenti, come quella del fondamentalismo islamico o del tentativo di rapimento finito male. Mandante e movente dell’esecuzione sono rimasti nell’ombra per tredici anni, fino ad oggi: segreto di Stato sulle fonti, silenzio della polizia e dei servizi segreti e poi la travagliata vicenda dei taccuini e della macchina fotografica di Ilaria.


Ilaria Alpi

I tentativi di depistaggio e i blocchi alle indagini, però, non hanno messo a tacere l’opinione pubblica, che si è mostrata sempre partecipe e che continua a chiedere la verità. I somali stessi sono convinti che Ilaria sia stata uccisa perché entrata in affari delicati e pericolosi per gli equilibri del Paese: “sapeva qualcosa di troppo”. Cosa sapeva, Ilaria, di troppo?

Quello che vediamo ora è che Ilaria sapeva fin troppo bene quello che voleva: lavorare seriamente, capace com’era di un’onestà intellettuale e di un senso critico così puri e limpidi da non temere nulla. Credeva talmente nella sua professione, da non essersi mai persa in calcoli di convenienza, da non aver soppesato troppo a lungo i rischi che correva. Ottima conoscenza della lingua araba, esperta di islam ed appassionata di Africa, prima di ogni partenza studiava, si documentava, cercava di prepararsi nel migliore dei modi. Alla competenza univa un coraggio grande, ereditato dai genitori Giorgio e Luciana, speso a piene mani per ciò in cui credeva, per raccontare la sua verità nel modo più accurato possibile.

Ilaria sapeva perfettamente di non trovarsi in Somalia per divertimento o per spirito d’avventura, ma per amore della verità e del proprio lavoro. Non aveva tempo per partecipare ai banchetti a base di caviale e champagne offerti dai connazionali e preferiva stare in mezzo alla gente, accanto alle donne, respirare l’aria delle strade polverose e gli odori dei mercati, alla ricerca dei pensieri e delle idee autentiche che circolano nelle periferie e nei bassifondi, lontane dal fasto delle cerimonie e dalla costruita precisione delle statistiche. Ilaria percepiva che la sofferenza di tante famiglie sarebbe durata ancora a lungo e donava loro solidarietà e affetto.

Un ricordo che svela la sua generosità è quello del Natale 1992, quando decise di trascorrere le feste con i bambini e i malati dell’ospedale di Merka, una struttura gestita allora dall’italiana Annalena Tonelli. Qui si incrociano le storie di tre donne decise a servire il popolo somalo e destinate a perdere la vita: Ilaria, Graziella Fumagalli (chiamata nel 1994 in sostituzione della Tonelli e uccisa l’anno seguente) e la stessa Annalena, assassinata nel 2003. Tre donne messe a tacere con un colpo alla testa, vittime di tre omicidi che rimangono avvolti da circostanze mai completamente accertate.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano inviati di pace e cercavano di raccontare una storia, di capire gli eventi in profondità senza fermarsi alle fonti ufficiali, di dar vita ad un’informazione precisa. Hanno testimoniato solidarietà e fratellanza, condividendo coi somali le conseguenze di un gioco diabolico, che divide invece di unire, che schiera gli uomini contro gli uomini in nome di interessi che preferiscono rimanere nascosti e che ci riescono.
ARTIGIANO DELLA PACE 1994

Nel 1960 nasce la Repubblica Somala, che nutre ben presto mire espansionistiche, riguardanti soprattutto l’Etiopia. Lotte interne al Paese portano nel 1969 ad un colpo di Stato, che instaura la dittatura del Generale Muhammad Ziad Barre, conclusasi il 26 gennaio 1991 con la fuga del dittatore in Kenia. Il Paese sprofonda nella guerra civile. L’Operazione “Restore Hope” del 1992, guidata dalla Forza Militare Multinazionale, non dà i risultati sperati e tuttora il Paese è dilaniato dalle lotte interne. Nel corso dell’Operazione “Restore Hope” muoiono anche alcuni militari italiani ed una crocerossina di 23 anni, Maria Luisa Luinetti, viene aggredita e uccisa nell’ambulatorio in cui presta servizio. Nel 1994 vengono uccisi a Mogadiscio la giornalista del Tg3 RAI Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin. Un mistero non risolto.
A questi nostri connazionali il Sermig nel 1994 ha conferito il Premio “Artigiano di Pace”. La motivazione è la seguente: “Chi offre la propria vita per la pace, per la solidarietà, per la giustizia, vive per sempre”.

Un traffico oscuro che non ha imparato la lezione dell’altra Africa, l’esempio del Sudafrica, che proprio in quegli anni spezzava l’apartheid e si preparava a percorrere un cammino di riconciliazione, riscoprendo il principio dell’ “Ubuntu”: il riconoscimento che ogni essere umano è legato a tutti gli altri, che la violenza inferta a una donna o ad un uomo in qualsiasi parte del mondo è una ferita aperta per l’umanità intera, che solo attraverso la verità si può guarire.

Ilaria e Miran forse l’avevano capito. Di fatto, spendevano la vita per servire la verità, con la dedizione e l’entusiasmo propri dei giovani. Chi ha cercato di fermarli non ha cancellato le speranze per cui lottavano, al contrario, ha reso più grande e fecondo l’esempio di amore per l’uomo e per la verità: come il seme che, morendo, fiorisce. Se la loro vita gridava amore, la loro morte lo grida ancora di più.

Maria Brambilla e Fabio Arduini

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Per approfondire:
“Memoria e verità ferite”, di Luciana e Giorgio Alpi
www.rsf.org

 

 

 

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