SUDAN: vietato sognare

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig

Provengono dal Darfur (Sudan), hanno tra i 23 ed i 30 anni, dei quali 22 passati dentro una guerra della quale tuttora non si vede la fine, che ha raso al suolo uomini, alberi, animali insieme alla speranza di un intero popolo. Non era più vita e così hanno giocato la carta disperata dell’esilio volontario, giungendo tappa dopo tappa sino a Torino, presso la nostra accoglienza all’Arsenale della Pace.

di Luca Pardi 


Nel 2006 sul solo territorio di Torino hanno stazionato almeno 350 persone richiedenti asilo politico, di cui ca. 150 sudanesi (altre nazioni: Eritrea, Etiopia, Nigeria, Costa d’Avorio, R.D. Congo). Se si pensa che nel 2005 il totale dei sudanesi richiedenti asilo in Italia era 603 (486 nel 2004 - dati Caritas) si comprende come ci sia una concentrazione di interesse sulla città di Torino, motivata dall’offerta formativa che il Tavolo cittadino per i rifugiati riesce a concretizzare. Un’attrazione analoga esercita l’Italia del nord-est per le opportunità lavorative.

A Natale 2006 le Autorità segnalano al Tavolo un’emergenza: quasi cento rifugiati dormono sulle panchine. Provengono dai centri di prima accoglienza del sud Italia (Crotone, Lampedusa e altri): scaricati dalle carrette del mare, per due/tre mesi hanno tirato sera senza altro da fare che fumare. Infine, è stato dato loro un permesso di soggiorno e via libera sul territorio nazionale. I rifugiati avrebbero diritto ad una serie di servizi garantiti dalla comunità internazionale...
All’appello il Sermig - che da tempo ospita donne rifugiate politiche - risponde mettendo a disposizione quindici posti anche nella propria accoglienza maschile, a condizione di poter attivare un progetto adeguato in rete con la Città. Frequentare una scuola di italiano e seguire un percorso di formazione al lavoro è indispensabile perché gli ospiti acquisiscano una regolarità di vita.

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Darfur. Campo profughi

Ci conosciamo: vengono dal Darfur (Sudan). Considerano dovuti casa, lavoro, scuola perché - dicono - tutti gli italiani li hanno. Spieghiamo che anche tra gli italiani un gran numero di persone è senza lavoro, non riesce a pagare l’affitto… Un mediatore culturale ci aiuta. Poi facciamo un bilancio delle loro competenze e attiviamo la collaborazione con un progetto “Equal” (co-finanziato dal Fondo sociale europeo) per il reinserimento nel mondo del lavoro, attraverso un rinforzo delle competenze lavorative. Il grande problema di questi progetti è la tenuta degli utenti - senza reddito - sulla distanza: come si manterranno? Riusciamo, in rete con più servizi, a garantire tutto quanto occorre per vivere, oltre ad una scuola di italiano.

Capiamo che è fondamentale accompagnare il percorso in ogni sua fase, offrendo ma anche esigendo serietà ed impegno, finché le persone acquistano un po’ per volta autonomia. Altrettanto fondamentali sono uno sguardo, un sorriso, una parola che li facciano sentire a casa. Così ogni sera chiediamo com’è andata la giornata, come stanno, guardiamo insieme i compiti.
Un giorno accettano di raccontarci qualcosa di sé. Una buona occasione per esercitare l’italiano (parlano arabo, la lingua ufficiale che in Sudan si studia a scuola, insieme ad un po’ di inglese).

I primi ricordi riguardano il loro Paese. Di solito ogni immigrato, pur costretto a cercare un futuro all’estero, porta nel cuore almeno un aspetto di cui parla con orgoglio. Ma la loro risposta è netta e tristemente sconcertante: “Non c’è nulla di bello in Sudan, c’è sempre solo la guerra”. Per il timore che non abbiamo capito, aggiungono: “Ascoltate la BBC e le altre radio internazionali, da noi non si mangia, ci sono tanti morti - tanti bambini e donne - tanti problemi… Nessuno nel mondo aiuta il Darfur”. Sicuramente si sono trovati ad imbracciare un fucile (in Sudan il servizio militare è obbligatorio) ma lo ammettono con reticenza.

Poi, la decisione di fuggire. Prima a piedi, poi con un camion fino in Libia, sino alla partenza per l’Italia su una barca. Il costo del viaggio (1000 dinari libici, ca. 585 €) raggranellato lavorando in nero in Libia, non senza correre rischi: “La Libia per noi è come il Sudan. Non possiamo chiedere asilo politico, dobbiamo stare attenti ad evitare la polizia. Il governo del Sudan ha paura che chi scappa in Libia organizzi la ribellione, così ha stretto un accordo con quello della Libia, per cui se la polizia ci arresta in Libia ci riporta in Sudan. Così anche lì dobbiamo stare lontani dalle città, in campagna”.

Infine, il viaggio per mare: “Ho rischiato di morire nei cinque giorni passati in mare”. Poi, la sosta in un centro di prima accoglienza, finché arriva il permesso di soggiorno e si parte per il nord Italia: “Sono stato a Milano, ho studiato in una scuola di italiano per tre mesi, ma non c’era la possibilità di una formazione professionale. Mi hanno detto che a Torino questo era possibile, così sono venuto qui”.

La famiglia è rimasta in Sudan e questo costituisce per tutti una grossa spina nel fianco, che ritorna più volte nel colloquio: “Da un anno e tre mesi sono via e non so come stanno, non ho un numero di telefono da chiamare”. “Anch’io da un anno non so cosa è successo - conferma un altro - non ho un indirizzo. Non so se la mia famiglia mangia o no, ho anche un fratello più piccolo di me...”. Tutti sottolineano più volte i tempi del loro esilio… tempi che scorrono molto lentamente, troppo rispetto al loro desiderio di una vita diversa, di notizie che per la maggior parte di loro non arriveranno o sarebbe meglio non arrivassero.

Veniamo alla vita in Italia. In Sudan avere la pelle nera significava avere problemi con il Governo arabo, “Non con la gente”, precisano. E in Italia? La prima risposta nega che ciò sia un problema, ma poi si ricordano che in pullman la gente non si siede vicino a loro, li guarda male, forse per paura.

I sogni per il futuro? La domanda li lascia chiaramente perplessi. L’essere privati di tutto toglie anche la possibilità di sognare. Poi la risposta è la stessa per tutti, con il tono di chi spiega un’ovvietà ad un bambino: “I sogni sono due: casa e lavoro. Cosa puoi fare senza lavoro? Quando uno non ha il lavoro, pensa sempre ad una cosa: come fare a mangiare… questo è il problema”. Insisto: e quando avrete il lavoro? “Vorrei tornare al mio Paese - azzarda uno, ma precisa: - solo quando non ci sarà più la guerra. Vorrei ritrovare la mia famiglia”. “A me piacerebbe diventare ingegnere elettronico” aggiunge un altro.

Chiediamo se pensano che un giorno potranno essere di aiuto al Sudan. “In che modo?” rispondono. “Ho paura, anche per il mio futuro qui in Italia, di incontrare problemi come nel mio Paese. Non credo che potrò aiutare il Sudan. Adesso devo pensare a come vivere in Italia”. Scambiano frasi in arabo tra di loro, è evidente che non ci hanno mai pensato. Poi uno dice: “Quando io avrò un lavoro, vorrei aiutare non solo la mia famiglia ma anche altre persone. In Darfur prima c’erano tanti animali, si mangiava, adesso non c’è più nulla. Se la mia famiglia mangia e gli altri no, è comunque un problema”.

Chiediamo se vogliono aggiungere qualcosa. Ci lasciano un appello. “Per noi qui in Italia è difficile imparare l’italiano, perché nessuno è disponibile a parlare con noi al di fuori delle due ore a scuola.
Se tentiamo di rivolgerci a qualcuno per strada, quello pensa che non capiamo niente e se ne va. Anzi, tante volte non ci danno neppure il tempo di chiedere, non ci ascoltano perché siamo stranieri. In Sudan non è così”. Uno di loro dice che quando può va in Biblioteca e si collega ad internet per cercare notizie sul Sudan. Ci consigliano di consultare “sudaneseonline.com”, poi chiedono “Che sito ha l’Italia?”. La nostra risposta non è immediata e questo fa pensare: non lo sappiamo perché viviamo in Italia, altrimenti lo sapremmo…

Vedi il progetto del Sermig:
“Sudan: aiuti ai profughi”

Vedi anche:
Le donne del SUDAN

Altre informazioni:
www.campagnasudan.it

 

 

 

 

 

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