TANZANIA: Una nuova famiglia per gli indesiderati

Pubblicato il 29-01-2010

di Redazione Sermig

Hanno trovato una nuova casa. Rifiutati dalle famiglie per via delle loro disabilità fisiche e mentali, ora vivono tutti insieme, condividendo quel poco che viene loro offerto e con le cure di padre Biseko, anima della comunità.

di Kizito Sesana

Bernadette è cieca. Trent’anni fa, quando ancora era una giovane infermiera, non riuscì a riprendersi dalla malaria che stava infestando Musoma, la sua città natale sulle rive del lago Vittoria, in Tanzania. Iniziò così ad assumere dosi massicce di chinino, che le provocarono danni irreparabili ai nervi ottici. Oggi i suoi capelli sono grigi, il suo sorriso sereno. Sta seduta sui gradini di quella che una volta era la sua casa. Una stanza semplice con pareti di mattoni di argilla e sovrastata da un tetto di latta. Ma tutto intorno, dove una volta cresceva l’orto, si ergono ora altre stanze con un cortile interno, una piccola cappella su un angolo e sul lato opposto una cucina, non lontano dalle docce e dai servizi.

Tutto è ordinato e pulito; il tutto è l’essenziale, come nel vero stile tradizionale africano, oserei dire francescano. L’unico segno di modernità è il mulino azionato da un piccolo motore elettrico, collocato vicino alla strada impolverata che attraversa la zona, e che ogni giorno viene usato da un costante flusso di clienti che viene a macinare il grano per il pasto quotidiano. Sui gradini delle altre stanze siedono persone con diverse tipologie di disabilità, alcune molto serie, e un gruppetto di bambini in età scolare. In totale, poco più di venti persone.

bambini Commosso da un lebbroso mendicante
L’anima di questa piccola comunità è padre Geofrey Biseko, un prete diocesano tanzaniano che dedica la sua vita per offrire un ambiente famigliare a chi è stato abbandonato dalle famiglie d’origine. “Era il gennaio 1988 - ci racconta padre Biseko - a quel tempo ero ancora un prete giovane. Il vescovo mi aveva chiesto di diventare suo segretario e promotore vocazionale per la nostra diocesi. Le domeniche di solito uscivo a celebrare Messa, sostituendo una volta un missionario, un’altra volta un prete che era assente per malattia o in permesso all’estero.

Un sabato ho incontrato un lebbroso che chiedeva l’elemosina. Nei suoi occhi ho letto un appello disperato. Non sono riuscito a dormire quella notte. Mi sentivo chiamato a fare qualcosa, ma non sapevo che cosa esattamente. La mattina dopo, durante la Messa, ho detto ai fedeli che dovevamo lasciare che le parole di Gesù ci sfidassero, che il vangelo penetrasse nella nostra vita. Parlavo loro, ma parlavo soprattutto a me stesso. Al termine della Messa, ho invitato coloro che si sentivano ispirati a fare qualcosa per i più poveri e per gli abbandonati ad incontrarci il sabato successivo.

All’appuntamento vennero in dodici. Quello fu il primo di una serie di segni che lentamente mi fece capire che la mia vocazione era quella di servire i poveri e gli abbandonati. Iniziammo con il fare visita ai poveri che vivevano per la strada e fu allora che Bernadette ci offrì la sua casa e la terra tutt’intorno. Alcune persone iniziarono a donare agli indesiderati dei vestiti, e altri ci portavano del cibo.
Nel 1994, il vescovo mi sollevò da altri incarichi e da allora io vivo qui, aiutato da quattro uomini. Piano piano, con l’arrivo di alcune donazioni, si sono aggiunte altre stanze ed abbiamo imparato a vivere condividendo il poco che gli altri ci offrono, in particolare i cristiani che vivono nelle vicinanze. Qui vicino a noi nessuno è ricco, ma riceviamo a sufficienza per vivere, a volte ci arrivano delle donazioni dall’estero, per esempio quella che ci ha permesso di acquistare il mulino. Ora abbiamo una casa più grande a 20 km da qui con circa cento ospiti e quindici donne che badano loro. Anche in questa casa le stanze sono piccole, senza luce e senz’acqua. Anche qui c’è una cappella, la cucina - che è in comune - e la mensa, dove c’è persino una luce che si accende grazie ad un pannello solare. Le persone ci chiamano Watumishi way Upendi che significa Servi dell’amore. Ecco tutto”.

Un sorriso felice e contagioso
Padre Biseko riassume così i suoi vent’anni di servizio. Siamo nel suo ufficio, una stanza con due vecchie poltrone coperte di polvere per via delle fessure nella porta e delle crepe tra le pareti ed il tetto di latta. Poi, mi conduce nel cortile dove saluta tutti quelli che incontra. Alcuni hanno gravi handicap, altri sono sordomuti dalla nascita, un altro ha perso la ragione a causa delle tragedie familiari che ha vissuto e ora guarda con occhi assenti e ripete una serie di parole incomprensibili. Mi accorgo con sorpresa che non mi lascio prendere dalla disperazione ma rimango invece colpito dalla semplicità e dalla spontaneità dei loro rapporti. È veramente una nuova famiglia quella che si è creata!

Padre Biseko stringe le mani a tutti, e scambia qualche parola con loro. Ha un sorriso felice che è davvero contagioso. Nel frattempo, mi confessa però il suo dolore nel vedere come la gente abbia perso i valori tradizionali e rifiuta le persone - come quelle che ha accolto nella sua comunità - che sono diventate un peso troppo grande, le abbandona per le strade o subito fuori l’ingresso della casa del Padre.

“Fortunatamente, fino ad ora siamo riusciti a non rifiutare nessuno. Anche quando, in questi ultimi anni, arrivavano due o tre nuove persone al mese”. Padre Biseko ha soltanto un rimpianto: non essere riuscito ad accogliere i bambini che vivono nelle strade. Ce ne sono pochi qui a Musoma, ma nonostante i suoi numerosi tentativi per aiutare alcuni di loro, non sono mai rimasti nella sua casa, se non per qualche settimana. Oggi ci sono sei o sette bambini di strada che vivono nella comunità e si divertono facendo disegni. Uno di loro è impegnato a disegnare con i colori una scena che a indovinare sembra proprio quella in cui San Francesco parla con gli uccelli. Qui Francesco è un santo molto conosciuto. È davvero di casa. Lascio il piccolo cortile con un sentimento di soddisfazione per avere incontrato una cellula vivente della Chiesa africana vera. Una piccola Chiesa che ama, che cammina con i poveri, che lavora dalle fondamenta senza fare rumore.

Un’esperienza degna di nota per il Sinodo africano
Quante esperienze simili a quella di Padre Biseko ci sono in Africa? Ne conosco poche, ma anche se fosse l’unica, è un segno luminoso che contrasta con altre debolezze della Chiesa. Mi chiedo se queste esperienze saranno portate al prossimo sinodo africano che si terrà a Roma nel mese di ottobre, intitolato: “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Mi auguro sinceramente di sì. La pace e la giustizia non si costruiscono con i discorsi e i documenti delle conferenze episcopali, degli incontri internazionali e delle mediazioni di pace - anche se possono certamente dare il loro contributo, alle volte. Sarà soprattutto l’amore a costruire un mondo giusto e pacifico, l’amore dinamico di un numero sempre maggiore di persone che seguiranno il modello di padre Biseko.

 

da Nuovo Progetto agosto – settembre 2009 

 

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