CATTOLICI E POLITICA (3/5)

Pubblicato il 31-08-2009

di Alessandro Moroni

 

Storia della presenza politica cattolica in Italia: il ’68, gli anni settanta, le Brigate Rosse e il sequestro Moro.

di Alessandro Moroni

 

Le lancette della storia puntavano intanto decise verso gli anni '60, epoca di grandi fermenti e rivolgimenti sociali. La Chiesa, spesso a torto tacciata di immobilismo, uscì per prima allo scoperto indicendo, per iniziativa di papa Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II, evento epocale destinato a scuotere le coscienze fino ad oggi (si vedano, tra le altre, le recenti polemiche suscitate dai lefebvriani tradizionalisti in occasione della revoca della scomunica a quattro loro vescovi) e del quale si parlerà certamente ancora a lungo. Siccome esula dall'argomento che stiamo trattando, non aggiungeremo granché al molto che già è stato detto: basti sapere che ribadendo con forza i capisaldi della fede cristiana il Concilio accettò la sfida dei profondi cambiamenti in essere nel tessuto sociale, introducendo modifiche significative alla liturgia, rivedendo il ruolo e l'impegno dei laici in seno alla Chiesa stessa, conferendo quantomeno "diritto di cittadinanza" alle Chiese cristiane non cattoliche e alle religioni non cristiane e, di fatto, portando a compimento l'iter iniziato 70 anni prima con la Rerum Novarum di Leone XIII.

In proposito troviamo ispirate le parole di don Michele Do, una figura di particolare santità e saggezza che ha giocato un ruolo fondamentale anche nei confronti del Sermig: "la Chiesa non è un'istituzione da aggiornare, ma una presenza - quella di Cristo - alla quale continuamente convertirsi". Le reazioni all'esito del Concilio furono in realtà tra le più disparate e fin dall'inizio vi fu, anche all'interno della Chiesa stessa, chi ne travisò gli esiti e le finalità, finendo con l'assumere atteggiamenti estremi, di natura prettamente ideologica. D'altronde, si entrava in un'epoca tristemente favorevole alle derive ideologiche.

L'esplosione del '68 e di ciò che ne derivò era dietro l'angolo. Nato nei campus americani come reazione spontanea al progressivo inasprimento dell'intervento militare USA in Vietnam, il movimento di protesta dilagò presto in tutto il mondo occidentale (creò qualche fastidio anche nella sfera d'influenza sovietica: volendo, possiamo ricondurvi anche le breve stagione della primavera di Praga, ben presto soffocata nella culla) finendo con il determinare una rivoluzione epocale a livello di costume. A 40 anni di distanza possiamo oggi fornire una valutazione più serena e distaccata del fenomeno, per esempio concludendo che se la ribellione più giovanilistica che giovanile (quasi tutti coloro che tirarono le fila della protesta studentesca nel 1968 i vent'anni li avevano superati da un pezzo) ebbe almeno il merito di abbattere qualche mummificato tabù borghese ammantato di ipocrisia perbenistica, come rovescio della medaglia determinò una crisi di valori senza precedenti.
 da Giovanni XXIII alla guerra del Vietnam

Estinti gli incendi, depositatasi la polvere, spazzati via i cocci degli edifici demoliti ci si avvide presto del vuoto di valori che l'ondata ribellistica aveva lasciato in eredità, soprattutto per quanto concerne tutto ciò che aveva un legame con la tradizione, a cominciare dalla famiglia; e questo forse più in Europa che in America, dove pure il fenomeno aveva avuto origine, senza mai peraltro assumere un connotato dichiaratamente ideologico, contestazione contro la guerra in Vietnam a parte. Connotato ideologico che invece si affermò in Europa occidentale. In particolare in Italia, dove tra la fine degli anni '60 e quella del decennio successivo abbiamo assistito alla massima penetrazione del pensiero marxista in tutti i settori della politica e della cultura, con la progressiva contrazione di tutto quanto non si riconosceva in questa sorta di "pensiero unico".

Gli anni '70 in particolare sono stati anni difficili per gli scrittori, i giornalisti, gli uomini di cultura in generale non orientati a sinistra; oggi può risultare poco comprensibile l'entità di quanto andiamo argomentando, ma per esempio chi scrive, avendo frequentato il liceo classico nella seconda metà di quel decennio, ricorda con un certo sgomento il clima intimidatorio in cui si svolgevano certe assemblee di classe o di istituto (per non parlare delle assurde farneticazioni che venivano presentate, discusse e normalmente votate nel plauso generale...). Era pericoloso - nel senso fisico della parola! - dichiararsi cattolici, o liberali, o comunque non marxisti; e se questa era la situazione a scuola, potete immaginare quale fosse nelle redazioni dei giornali, negli infuocati dibattiti pubblici, nelle fabbriche.

Un episodio può fornire un quadro piuttosto chiaro della situazione: a metà di quel decennio un giovane e sconosciuto giornalista cattolico ritenne di non doversi rinchiudere nello steccato sicuro di una casa editrice "amica" per la pubblicazione del proprio esordio nella saggistica, e di rivolgersi invece a un editore laico che andava per la maggiore. Gli fu "caldamente consigliato" di chiedere ad un membro del comitato centrale del PCI di redigerne la prefazione. Il giovane autore prese atto che la possibilità di pubblicare presso quell'editore di così vasta diffusione ed ottima reputazione (laica...) passava attraverso l'accettazione di quel "consiglio", e vi si assoggettò. E fu senz'altro un consiglio ispirato dall'Alto, perché ad esso si deve il successo planetario di un libro di eccezionale valore saggistico e formativo: l'episodio è tuttavia emblematico del clima che si respirava in quell'epoca, e senz'altro Vittorio Messori se ne ricorda ancora oggi, quando ripercorre i passi travagliati che portarono alla pubblicazione del suo "Ipotesi su Gesù", nell'ormai lontano 1976.

 Le manifestazioni in Italia e Vittorio Messori

Purtroppo questa sorta di virus ideologico infettò anche parecchi uomini di Chiesa; infatti, sul finire degli anni '60 compare uno strano ibrido: il religioso, il sacerdote con in mano Das Kapital di Karl Marx o (per certi versi anche peggio...) il Libretto Rosso di Mao-Tze-Tung. So che susciterà incredulità in molti lettori ventenni, ma questo non avveniva solo in senso figurato La confusione, in quegli anni, era totale: dominava una sorta di acquiescenza, di sudditanza psicologica continua quasi che il Vangelo non potesse costituire di per sé sorgente di vita e continua risposta a tutte le angosce umane, in tutte le epoche e sotto tutte le latitudini. Al contrario, in una gara continua a voler apparire più disincantati e più anticonformisti si continuò per anni a contaminare il credo cattolico con elementi estranei, presi forzosamente a prestito da ideologie alla moda, nate effettivamente un secolo prima con tipica connotazione antireligiosa. Fiorirono in quegli anni tanti gruppi e movimenti ispirati a questo mix assolutamente improponibile; ne ricordo uno, per avere avuto qualche compagno di scuola che ne ha fatto parte: i cristiani per il socialismo (che suonava un po' come la ricetta della pasta col risotto...).

Nel frattempo, a livello parlamentare, la DC si arrabattava, facendo fronte alla lenta e costante crescita del PCI allargando progressivamente le proprie alleanze strategiche verso i partiti di sinistra non comunisti: dalle partnership "storiche" con PRI e PLI (i repubblicani e i liberali) si passò a quella con PSI e PSDI (i socialisti e i socialdemocratici). Furono gli anni nei quali iniziò a prendere piede il tipico "trasformismo" democristiano, che non disdegnava compromessi e bizantinismi politici, anche quando ad essere in gioco erano capisaldi dell'etica cristiana; valga per tutti l'esempio dell'introduzione della legge sul divorzio nel 1970 e quella sull'aborto otto anni più tardi: governi a guida democristiana proposero le due leggi facendole prima ratificare dal parlamento, per poi delegare a specifici comitati nati "ad hoc" l'iniziativa di abrogarle con apposito referendum (tentativo peraltro fallito in entrambi i casi: al di là dei giudizi di valore, innegabilmente si trattò di un contorsionismo politico mirato a ripulirsi la coscienza senza rischiare di compromettere equilibri faticosamente raggiunti coi partiti laici).

Con l'avvento del '68 si capì che i tradizionali schieramenti parlamentari cominciavano ad essere un po' obsoleti nella rappresentazione del "Paese reale". A sinistra del PCI e a partire da esso iniziarono a prendere quota diverse formazioni nate sull'onda della contestazione giovanile. Nel frattempo le tensioni sociali ed ideologiche andavano inasprendosi in tutto il Paese; già sul principio degli anni '70 si vide chiaramente come il clima politico si fosse avvelenato: gruppi clandestini di estrema sinistra e di estrema destra (questi ultimi spesso con il concorso di rami deviati dei servizi segreti) aprirono una nuova stagione insanguinata: sono i cosiddetti anni di piombo, caratterizzati dalle stragi provocate dalle bombe di piazza Fontana (1969), di piazza della Loggia e del treno Italicus (1974), della stazione di Bologna (1980); in un crescendo assurdo di violenza che a molti ricordava il clima che preparò il colpo di stato militare in Grecia, nel 1967.

 Piazza Fontana, Aldo Moro e Berlinguer

Segno caratteristico di questi episodi tragici nella storia della nostra repubblica è il cumulo di affermazioni, controaffermazioni, depistaggi che non permisero mai l'individuazione certa di esecutori e mandanti (solo per la strage di Bologna si arrivò a delle condanne, ma anche per quell'episodio il dubbio rimane): fu la cosiddetta strategia della tensione. L'altro aspetto che caratterizzò oscuramente quel periodo fu il terrorismo eversivo delle BR, le brigate rosse, e delle altre formazioni clandestine di matrice marxista e rivoluzionaria. Portando alle estreme conseguenze il clima ribellistico e intimidatorio che già abbiamo descritto, questi gruppi eversivi alzarono il tiro: pagarono con la vita politici, industriali, giornalisti che per la loro particolare posizione erano visti come ostacoli sostanziali per la realizzazione della strategia eversiva. Non furono presi di mira, come potrebbe essere logico attendersi, solo esponenti di destra: sintomatico è il fatto che la vittima più illustre, se così si può dire, delle Brigate Rosse fu proprio Aldo Moro, presidente della DC e da molti considerato l'erede politico di Dossetti.

Nel tentativo di far fronte alla deriva politica susseguente alla crisi di credibilità che le istituzioni democratiche iniziavano a soffrire nel Paese, Moro si fece interprete di un riavvicinamento al tradizionale avversario politico della DC, il PCI. Il segretario di quest'ultimo, Enrico Berlinguer, fu l'autore del famoso strappo con il quale il PCI aveva preso le distanze da Mosca rigettando il massimalismo rivoluzionario marxista e proclamando l'intenzione di perseguire quello che chiamò eurocomunismo, nel rispetto delle regole democratiche. Fu Berlinguer a farsi inizialmente promotore del cosiddetto compromesso storico, ovvero - come fu chiamato dai detrattori - il "connubio tra il diavolo e l'acqua santa". Aldo Moro, esponente democristiano di punta in quegli anni insieme a Giulio Andreotti, raccolse la sfida e invitò i comunisti a partecipare dall'esterno, quindi senza propri ministri in carica, ad un governo di unità nazionale. Proprio il 16 marzo 1978, giorno in cui il suddetto governo si doveva insediare, le BR sequestrarono Moro, uccidendo i cinque uomini della sua scorta.

Fu un bersaglio emblematico, perché con il suo ruolo di "grande mediatore" tra il centro e la sinistra dello schieramento politico minava la potenziale base di consenso del terrorismo eversivo marxista, che aveva ragion d'essere solo nello scontro insanabile tra la classe borghese e quella operaia. Fu condotto in un "carcere del popolo" e sottoposto a quello che, nel linguaggio paranoico dei terroristi rossi, fu definito un processo allo Stato. Seguì un mese e mezzo di attesa angosciosa caratterizzata da affermazioni di principio improntate alla più assoluta fermezza delle cariche dello Stato nei confronti delle BR (perché accettare una qualsivoglia forma di trattativa avrebbe significato un riconoscimento ufficiale che ad ogni costo si voleva evitare); in realtà qualche trattativa ufficiosa e mai decollata venne condotta, parallelamente ad indagini raffazzonate non precisamente segnalatesi per la loro efficienza.

Moro era uomo di profonda fede, come prima di lui lo erano stati, tra gli altri, De Gasperi, Dossetti e La Pira, ma difettava di senso dello Stato, e fu forse per questo motivo che nelle lettere che scrisse durante la prigionia e che i terroristi fecero recapitare, chiese senza mezzi termini che si intavolassero ufficialmente trattative per salvarlo. Il contenuto di tali missive turbò alcune coscienze (ci fu chi disse che lo statista democristiano non stesse precisamente morendo da eroe...) ma non mutò l'atteggiamento di fermezza delle cariche dello Stato. Il cadavere del presidente DC fu ritrovato nel bagaglio di una Renault rossa, sempre a Roma, in via Caetani. Seguirono polemiche, anche accese, fomentate dai familiari di Moro e da tutti coloro i quali avevano osteggiato la linea della chiusura assoluta ad ogni trattativa con le BR: si disse anche che tanta fermezza fosse di facciata e di comodo, perché il Presidente DC era una presenza ingombrante per molti, all'interno del suo stesso partito, e che per questo motivo si colse al balzo l'opportunità fornita dai terroristi per sbarazzarsene. Il cinismo di certi commenti non deve sorprendere, perché riflettono il clima avvelenato che caratterizzava la scena politica di quegli anni.

 

Alessandro Moroni
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