Chiamati a costruire la “Civiltà dell’amore” (5/5)

Pubblicato il 31-08-2009

di Bartolomeo Sorge


camera.jpg IL RUOLO DEI FEDELI LAICI NELLA CHIESA DI OGGI - È L’ORA DEI LAICI

Nella crisi strutturale in atto è compito dei fedeli laici operare immediatamente per un giusto ordine della società, trasformare in modalità laiche la luce del Vangelo e del Magistero della Chiesa.

di Bartolomeo Sorge S.I.

Alla nostra generazione spetta il grave compito del discernimento. I modelli di ieri non servono più, quelli di domani non ci sono ancora. Occorre «inventare» strade nuove di partecipazione. È una vera fatica – anche pericolosa, perché si può sbagliare –, ma è esaltante. Il guaio è che questa crisi epocale di civiltà ci ha presi alla sprovvista, non l’abbiamo vista venire. Ci siamo trovati tutti impreparati ad affrontarla. Di qui la priorità assoluta della educazione e della formazione, tanto più necessaria in quanto i cattolici oggi sono divisi non sulla necessità di rendere al Paese un servizio culturale, ma sul modo di prestarlo.

Come si devono porre la Chiesa e i cattolici italiani di fronte ai gravi interrogativi che la presente situazione comporta? La Chiesa non può disinteressarsene – ribadisce il Papa –: «non può esimersi dall’interessarsi del bene dell’intera comunità civile, in cui vive e opera, e ad essa offre il suo peculiare contributo formando nelle classi politiche e imprenditoriali un genuino spirito di verità e di onestà, volto alla ricerca del bene comune e non del profitto personale» (Benedetto XVI, Messaggio al Presidente della CEI in occasione della 45a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani [2007]). Perciò, Benedetto XVI ha ribadito quanto aveva già detto nell’enciclica Deus caritas est: «il compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali»; nello stesso tempo, però, accanto al contributo «mediato»,
specifico della Gerarchia, è compito dei fedeli laici operare «immediatamente» per un giusto ordine nella società; pertanto, «come cittadini dello Stato tocca ad essi partecipare in prima persona alla vita pubblica e, nel rispetto delle legittime autonomie, cooperare a configurare rettamente la vita sociale, insieme con tutti gli altri cittadini, secondo le competenze di ognuno e sotto la propria autonoma responsabilità» (ivi). In una parola: è l’ora dei laici. È loro missione, mediare in termini culturali, politici, economici e sociali la luce che il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa gettano sull’antropologia. impegno.jpg
Infatti, alcuni si ispirano al metodo deduttivo: ritengono che si debba partire dalla riaffermazione dei valori e dei principi «non negoziabili» per dialogare «senza complessi di inferiorità con le dinamiche culturali del nostro tempo» (così, per esempio, si leggeva nel Documento preparatorio alla 45ma Settimana sociale), proponendosi in forma neppure tanto velata di ristabilire in Italia una forma di leadership culturale cattolica, dopo la fine di quella politica. Altri invece, senza nulla togliere alla importanza della testimonianza e dell’annunzio coraggioso dei valori del Regno di Dio, ritengono che sul piano operativo si debba seguire il metodo induttivo: partire piuttosto dalla condivisione disinteressata dei problemi materiali, morali e culturali della gente, per proseguire insieme gradualmente verso la verità tutta intera, confidando nell’aiuto dello Spirito Santo che apre gli occhi della mente e del cuore. È questo il metodo di Giovanni XXIII (vedere, giudicare, agire), fatto proprio dal Concilio (Gaudium et spes), codificato da Paolo VI nella lettera apostolica Octogesima adveniens, n. 4.

È importante chiarire questo rapporto tra dialogo e testimonianza della carità. Non è solo questione di metodo, se è vero – come scrive Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est – che la carità (quindi, anche la carità culturale) «non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. […] Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa» (Deus caritas est, n 31c).

In Italia, infatti, la questione è questa: in una situazione culturalmente e politicamente frammentata i cattolici sono in grado, sì o no, di aiutare il Paese a ritrovare la sua unità nel rispetto della pluralità? Sono capaci, sì o no, di realizzare insieme con gli altri una mediazione culturale che recepisca quanto di valido vi è nelle differenti tradizioni, senza chiedere a nessuno di rinnegare le proprie radici e la propria storia, ma spingendo tutti a una partecipazione democratica, che vada oltre gli anacronistici steccati ideologici e culturali?
Certamente sì. Non solo i cattolici sono capaci di recare questo contributo, ma oggi è questo il loro preciso dovere. A ciò li impegna il grande «sì» della fede, di cui parla spesso Benedetto XVI. Non è una categoria astratta («La fede senza le opere è morta», [Gc 2, 26]), ma si traduce necessariamente in testimonianza disinteressata della carità, anche della «carità culturale» e della «carità sociale e politica»: offerta non in modo strumentale, per imporre agli altri una propria visione confessionale, ma con disinteresse in vista alla formazione di un ethos civile e laico condiviso, intorno al quale realizzare l’unità nella pluralità, necessaria a garantire il bene comune.

Detto in altre parole: non basta enunciare i valori assoluti e i principi «non negoziabili» (i quali devono essere certamente annunziati e testimoniati), se nello stesso tempo non ci si impegna a ricercare insieme il bene comune possibile, il quale passa inevitabilmente attraverso le regole democratiche del consenso e quelle psicologiche della gradualità. Infatti – come ha spiegato bene il card. Martini nel discorso di sant’Ambrogio 1998 –, il bene comune non consiste in una definizione filosofica astratta, ma va perseguito concretamente commisurandolo alle reali situazioni storiche in cui si opera; ciò significa che il suo raggiungimento dovrà passare per il convincimento e la pazienza, per la progressiva e graduale affermazione dei valori, talvolta «perfino per dure rinunce nel nome di una superiore concordia civile e sempre in vista di un bene più alto».
sogno.jpg I principi e i valori, cioè, sono sempre in sé «non negoziabili», ma la loro traduzione storica è soggetta alle condizioni di tempo e di luogo, al consenso e alla crescita del costume e della vita politica. «Sembra invece – continua Martini – che, nell’accettare le leggi del consenso, il cristiano si senta in colpa, come se affidasse al consenso democratico la legittimazione etica dei propri valori. Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore, bensì di assumersi autonomamente una responsabilità nei confronti della crescita del costume civile di tutti, che è il compito vero dell’etica politica. Tale compito perciò sta a cuore alla Chiesa nel suo operare come seme e lievito all’interno della società» (ivi).
Pertanto, si applica anche all’esercizio della «carità culturale» ciò che Benedetto XVI dice più in generale nell’enciclica Deus caritas est: «Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare» (n. 31c).
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In conclusione, oggi non è più tempo di pensare all’egemonia di una cultura politica (neppure di quella «cattolica») imposta sulle altre, ma di realizzare la partecipazione di tutti alla vita democratica, che apra le diverse tradizioni culturali che hanno fatto l’Italia a una dimensione trascendente nuova, senza tagliarne le radici. Ma per questo bisogna formarsi, educarsi alla politica.

Per tutti, si tratta di rinverdire e approfondire lo spirito e la lettera della nostra Costituzione repubblicana. Sessant’anni fa i Padri costituenti riuscirono a superare le profonde divisioni ideologiche di allora in nome del bene comune del Paese, facendo sintesi tra l’attenzione alla dimensione etica e religiosa (propria del personalismo della tradizione cattolico-democratica), l’insistenza sulla solidarietà (propria della tradizione socialista) e la esigenza di laicità (propria della tradizione liberal-democratica). Perché noi oggi non dovremmo riuscire ad approfondire insieme il significato di valori (libertà, uguaglianza, solidarietà, pace, dignità della persona) che permeano la nostra Costituzione e di cui oggi conosciamo meglio il significato dopo 60 anni di vita democratica?

Per i cattolici, in particolare, si tratta di formare numerosi politici nuovi, uomini e donne della sintesi tra spiritualità e professionalità, capaci di testimoniare e immettere lo specifico cristiano nella vita politica: «Chi ha responsabilità politiche e amministrative abbia sommamente a cuore alcune virtù, come il disinteresse personale, la lealtà nei rapporti umani, il rispetto della dignità degli altri, il senso della giustizia, il rifiuto della menzogna e della calunnia come strumento di lotta contro gli avversari, e magari anche contro si definisce impropriamente amico, la fortezza per non cedere al ricatto del potente, la carità per assumere come proprie le necessità del prossimo, con chiara predilezione per gli ultimi» (Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace, Educare alla legalità, n. 16)

Pertanto, i cattolici – quale che sia la loro scelta partitica – oggi sono chiamati a recare un contributo originale ed essenziale in direzione di una nuova cultura della partecipazione, sia a livello di riflessione teorica, sia a livello operativo di testimonianza e di effettivo servizio politico e sociale.

di Bartolomeo Sorge S.I.


 

 

 

 

 

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